Qual è il ruolo della cultura, e in particolare delle designazioni UNESCO, nella promozione della diversità come fattore abilitante di processi di sviluppo sociale ed economico?
Durante il panel “Economia e cultura: il ruolo dell’UNESCO” che si è tenuto il 2 giugno 2022 presso l’Auditorium del Grattacielo San Paolo nel contesto del Festival Internazionale dell’Economia di Torino, abbiamo dialogato con tre ospiti d’eccezione per provare a dare una risposta a questa domanda. Qui di seguito un estratto, in parte rielaborato, dei temi emersi durante il confronto.
Pace, educazione, sostenibilità economica, accessibilità alla cultura e promozione della diversità culturale sono alcuni degli argomenti emersi dalla conversazione con Irina Bokova (Direttrice Generale dell’UNESCO dal 2009 al 2017), ha saputo cogliere l’importanza dell’Agenda 2030 e l’ha fattivamente promossa durante il suo mandato; Enrica Pagella (Direttrice dei Musei Reali di Torino), che traduce molti di questi temi in concreto attraverso la sua azione di direzione dei musei; Paolo Naldini (Direttore di Cittadellarte – Fondazione Pistoletto), da sempre impegnato, con la sua organizzazione, nel promuovere la relazione tra arte, democrazia e sostenibilità. L’incontro è stato moderato da Alessio Re (Segretario Generale di Fondazione Santagata).
ALESSIO RE:
La diversità è uno dei temi cardine di questa edizione del Festival Internazionale dell’Economia, perciò iniziamo subito con questa domanda: come valorizzare la DIVERSITÀ attraverso la CULTURA?
PAOLO NALDINI:
Vorrei iniziare citando il lavoro Love Difference che Michelangelo Pistoletto ha creato a Cittadellarte nei primi anni Duemila e che è diventato un simbolo e uno strumento operativo del Movimento Artistico per una Politica InterMediterranea. È stato un sogno che si è avverato. In quegli anni abbiamo avuto la fortuna di lavorare con un caro amico di Pistoletto e di Cittadellarte, il prof. Walter Santagata: insieme a lui abbiamo compreso la necessità di promuovere una visione della diversità non solo basata sulla tolleranza, ma che voleva amare le differenze.
Credit: www.lovedifference.org
IRINA BOKOVA:
Nella Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale adottata dall’UNESCO nel 2001 si afferma proprio che la diversità culturale sta all’umanità come la biodiversità sta alla natura. È un principio fondamentale.
La lista dei siti Patrimonio Mondiale è un libro aperto sulla diversità dell’umanità. Quest’anno si celebra il cinquantesimo anniversario della Convenzione sulla Protezione del Patrimonio Mondiale, una delle idee più rivoluzionarie del XX secolo, e sarà nuovamente un’occasione per riflettere sui rischi e le opportunità che ci attendono: da una parte la mancanza di investimenti, i cambiamenti climatici, un’urbanizzazione non sostenibile; dall’altra gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Non è un caso che nell’obiettivo n.11 “Città e comunità sostenibili” la cultura sia menzionata in quanto protezione del patrimonio culturale e naturale.
Ma quando parliamo di patrimonio bisogna ricordare anche quello immateriale: parlare di diversità significa parlare anche di conoscenza e alfabetizzazione culturale.
La protezione del patrimonio culturale può promuovere la diversità, la conoscenza dei rischi, la conoscenza degli altri, e anche l’amore. Penso sia importantissimo al giorno d’oggi, in termini di risoluzione dei conflitti e in un contesto di crisi economica e sviluppo post-Covid, ritrovare le diversità.
ENRICA PAGELLA:
La diversità culturale fa certamente parte del DNA dei grandi musei dell’Occidente. Anche i Musei Reali di Torino, come tanti altri musei, sono nati nel ‘500 da un’idea di “Wunderkammer”: un’idea del teatro di tutte le scienze e della rappresentazione del mondo da cui si sono sviluppate relazioni che abbracciano i quattro continenti attraverso una serie di manufatti, decorazioni, storie degli artigiani che li hanno prodotti e dei collezionisti che li hanno amati e poi trasferiti alla proprietà museale.
La diversità culturale è un elemento portante dell’identità museale.
Il problema è quindi trasferire questa diversità in azioni che abbiano un impatto sulle comunità.
Ad esempio, una sfida che si pongono i Musei Reali (che è tra l’altro un sito UNESCO) è la trasformazione delle Serre Reali in un grande luogo di accessibilità, un hub dove intendiamo accogliere le persone con delle narrazioni nuove, progettate in maniera partecipata con le comunità, recuperando la diversità con degli oggetti e dei percorsi tematici.
A.R.:
Mi piacerebbe fare una riflessione anche sotto la prospettiva della SOSTENIBILITÀ (anche) ECONOMICA.Mi riferisco ai nuovi modelli di business emergenti nel settore culturale, che sempre di più cercano nuove strade e strumenti per relazionarsi alle comunità generando impatto culturale ed economico.
E.P.:
Penso che la sostenibilità economica delle imprese culturali, anche da parte di chi opera in queste istituzioni, debba essere al centro dell’azione. I musei hanno, oltre la bigliettazione, mille modi di recuperare risorse (store, affitto spazi, fundraising…).
Ognuna delle azioni che un museo può mettere in campo per aumentare la sua sostenibilità è sempre e comunque un’azione che imposta nuove relazioni. Infatti, non bisogna vederlo solo in termini di finanziamenti aggiuntivi che arrivano al museo, ma anche in termini di consenso e rapporti nuovi che vengono a crearsi attraverso un nuovo canale.
La ricerca di finanziamenti aggiuntivi non è mai solo legata ai soldi, tutt’altro: si tratta di mettersi in relazione con altri, fuori dal nostro universo del museo.
Inoltre, i Musei Reali hanno sviluppato il secondo Piano Strategico, a cui si agganciano il Business Plan e degli strumenti di monitoraggio: è stato un grande lavoro fatto con la Fondazione Santagata che ha accresciuto la nostra consapevolezza.
Tuttavia, nei musei siamo ancora lontani dalla vera partecipazione di tutto lo staff ai problemi di bilancio. Credo che un’azione importante sarebbe quella di promuovere questa consapevolezza verso tutti: dev’esserci una responsabilità di tutti, perché la sostenibilità significa anche responsabilità sociale, soprattutto per un museo pubblico che viene sostenuto con le risorse dei cittadini.
I.B.:
A questo proposito, sono molto felice che nel 2015 l’UNESCO abbia adottato la Raccomandazione sul ruolo cruciale dei musei nel loro contributo alle comunità, all’educazione e alla diversità!
A.R.:
Tutti avete evidenziato il rapporto tra diversità culturale, sviluppo umano ed economia. Oggi viviamo in un periodo che ci pone di fronte a un altro tema, che è quello del mantenimento della PACE.
Il senso stesso dell’UNESCO non è soltanto quello di promuovere i territori e le comunità, ma com’è scritto nel preambolo, di coltivare e promuovere la pace.
Nel suo “Terzo Paradiso”, Pistoletto ci ha suggerito un traguardo, ma oggi se volessimo lavorare attraverso le nostre capacità, quali sono quelle che ci mancano per raggiungerlo?
P.N.:
Non abbiamo bisogno di guerre preventive, ma di una pace preventiva. E per raggiungerla abbiamo bisogno della cultura, perché non si ottiene la pace con la guerra, ma è con la cultura che si mantiene la pace. Nel programma di residency UNIDEE a Biella, ad esempio, abbiamo studenti dalla Palestina e dall’Israele che lavorano e creano insieme. Attraverso questa co-creazione si impara e si condivide l’uno con l’altro.
E questa diventa una questione economica nel momento in cui si spenderebbe molto meno per evitare la guerra rispetto a farla! Io penso che questa sia la formula del Paradiso, che è qui sulla Terra.
A.R.:
Per quanto nessuno di noi sia abituato a porsi queste questioni ed affrontarle, credo che oggi dobbiamo sentirci investiti di questa responsabilità, in qualunque settore lavoriamo. A maggior ragione per chi opera nella cultura, per chi ha la fortuna e possibilità di utilizzare dei canali di diplomazia, anche attraverso l’UNESCO. Peraltro, negli ultimi anni l’UNESCO ha promosso diverse campagne di ricostruzione e riattivazione sociale. Cito per esempio il lavoro fatto in Iraq a Mosul.
Ci sono tuttavia alcune aree del mondo dove non si è riusciti a portare avanti queste iniziative, come in Siria. La Fondazione Santagata per esempio ha ideato un programma rivolto proprio agli studenti universitari siriani, Heritage Beyond Walls, con l’obiettivo di creare dei canali accessibili di informazione e condivisione per promuovere il patrimonio culturale come risorsa di sviluppo e mantenimento della pace.
Cosa dobbiamo recuperare per far sì che non ci siano angoli del mondo che rimangono indietro o dimenticati?
I.B.:
Condivido quanto detto da Paolo Naldini sul ruolo della cultura per la pace. L’idea dell’UNESCO è proprio costruire e garantire la pace anche attraverso la cultura, la scienza e l’educazione.
Ricordo ad esempio quando, qualche anno fa, gli estremisti occuparono gran parte dell’Iraq distruggendo i siti più emblematici del Patrimonio Mondiale. In quell’occasione ho chiesto al Primo Ministro iracheno “Cosa può fare l’UNESCO per aiutarvi?”. La sua risposta fu molto interessante e in linea con la missione dell’UNESCO: aiutare a riportare la storia, l’umanità, l’arte e la creatività nelle scuole.
Così ho iniziato a pensare che abbiamo bisogno di coinvolgere i giovani nella diversità e, da un lato, educarli sui diritti umani e l’alfabetizzazione culturale, dall’altro mobilitare le comunità locali e mostrar loro che la cultura e il patrimonio possono contribuire.
L’Italia e l’UNESCO nel 2016 hanno firmato la convenzione UNITE4HERITAGE per lavorare insieme nella promozione della protezione del patrimonio come ponte tra diverse comunità e occasione di sviluppo per diversi Paesi.
E nel 2017, per la prima volta, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha riconosciuto che la pace, la protezione del patrimonio, lo sviluppo sostenibile di comunità e paesi e le questioni legate alla sicurezza sono fortemente connesse.
Di certo non si può dire o pensare che il patrimonio sia qualcosa di separato dallo sviluppo e dalla pace!
A.R.:
Irina Bokova è infatti, consentitemi di ricordarlo, una delle persone che all’interno dell’UNESCO più si è impegnata a collegare la questione del diritto alla cultura ai diritti umanitari, a considerare l’accesso alla cultura come un vero e proprio diritto umanitario.
Parlando di diritto di ACCESSO alla cultura, anche durante l’emergenza sanitaria c’è stato un problema di distribuzione e di equità, nella possibilità di utilizzare tecnologie nuove o meno nuove: in che modo un museo può effettivamente facilitare l’accesso alla conoscenza? Come può aumentare le possibilità di chi ne ha meno di accedere a più diritti, compresi quelli culturali?
E.P.:
Il ruolo educativo del museo è ormai consolidato. Quando parliamo di accessibilità siamo sempre più consapevoli che è qualcosa di diverso, complesso e più interessante delle nostre sale ‘aperte’.
Stiamo sviluppando il tema dello storytelling, come in tutti i musei, sia sui siti sia producendo contenuti digitali dalle nostre collezioni.
Di recente, dopo un’importante campagna di catalogazione, abbiamo aggiunto al nostro catalogo online 3.000 schede sul nostro patrimonio archeologico che unisce le culture del Mediterraneo, e quindi ci è sembrato uno strumento necessario anche per chi non si trova nelle vicinanze.
Noi sappiamo che la conoscenza e attività educative sono misurate sui bisogni delle persone e non derivate semplicemente dalle necessità di una disciplina.
Tuttavia l’educazione al museo può avvenire in tanti modi, non è soltanto conquistare dei pezzi di conoscenza ma anche meravigliarsi, stupirsi, vivere un’esperienza unica nel corso della vita. Il museo deve coltivare tutte queste strade che sono l’incanto e la possibilità di conoscenza, senza trascurarne nessuna.
In questa prospettiva, la sfida è quella di fare nuove alleanze e aggiungere nuove competenze dentro il museo. Non bastano più gli archeologi, storici dell’arte, o gli storici umanisti tradizionali; ci vogliono antropologi, sociologi, psicologi, economisti perché le potenziali narrazioni sono infinite, perché ognuno di noi è diversità. Per affrontare tutte le diversità ci dev’essere un lavoro comune di squadra che metta a sistema competenze diverse, esplorazioni di temi e narrazioni diversi da quelle del passato.
Le nuove generazioni si troveranno di fronte a un dialogo interdisciplinare e multidisciplinare.
Guardando gli obiettivi di sviluppo sostenibile, è sorprendente che la cultura non ne sia al centro. Tuttavia, come dico sempre ai miei collaboratori e come abbiamo capito, la cultura è in realtà l’humus che sta alla base di tutti quegli obiettivi che guardano al benessere dell’umanità e alla felicità. Il fatto che non compaia esplicitamente nei 17 obiettivi dovrebbe darci la misura di quanto sia importante questa linfa vitale che li attraversa, che si tratti di diritti, uguaglianza di genere, ambiente, acqua, cibo sostenibile, scuole e istruzione per tutti. La cultura si trova all’interno di tutto questo. Abbiamo quindi un’enorme responsabilità.